Racconto numero 3
PAUSA OMICIDIO
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)
Provo a chiudere un attimo gli occhi.
Li riapro.
Non serve: il morto è ancora là, disteso sul lettino.
Potrebbe non essere un problema se il lettino non fosse mio.
Non l’appartamento. Quello è in affitto. Sono solo quarantasei metri quadri, ma una modesta attività come la mia non richiede molto più di una stanza, un lettino e un po’ di attrezzatura, che nel caso di uno che toglie i calli è poca cosa. Tra gli attrezzi del mestiere, naturalmente, anche dei bisturi, la maggior parte dei quali sono allineati in bella mostra su un carrellino a ruote.
Tranne uno.
Quello che manca è conficcato nella giugulare del tizio sul lettino.
Sangue non ne esce più dalla ferita. Buona parte di quello che era nel corpo del morto, un tipo anonimo di una quarantina d’anni, con una grossa pancia e pochi capelli, è ora distribuito sul pavimento, sulla parete e su un camice appallottolato e buttato in un angolo, che l’assassino deve avere indossato mentre lo sgozzava.
Anche il camice, ovviamente, è mio. Lo avevo appeso all’attaccapanni nell’angolo prima di uscire per il pranzo. Vicino al camice un grumo di cotone. Gli occhi vanno istintivamente alla boccetta dell’etere che a volte uso per anestetizzare i pazienti prima di una operazione che si annuncia particolarmente dolorosa. Giurerei che il cotone ne è impregnato e che la vittima lo ha respirato.
A tradimento.
Non vomiterò il pranzo sul pavimento. La scena non è di quelle che si guardano a cuor leggero, ma uno che ha fatto per vent’anni il patologo ha lo stomaco allenato. Piuttosto è il cuore che mi preoccupa. Ho superato i sessantacinque e non è che abbia fatto una vita tanto tranquilla. Quindici di questi li ho passati in una prigione, da cui sono uscito da poco, cercando di rifarmi uno straccio di vita con questo lavoro per il quale, a volerla dire tutta, non ho neanche la licenza.
Ero uno stimato professionista una volta. Avevo una famiglia, anzi: quella che si definisce comunemente una “bella famiglia”. Almeno all’apparenza.
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