lunedì 11 aprile 2011

Racconto numero 32 - CECILIA

Racconto numero 32
CECILIA
(L'autore rimane anonimo per favorire l'imparzialità)


La prima volta che ho incontrato Cecilia, lei non mi ha visto. Stavo aspettando che il semaforo passasse al verde, ho gettato uno sguardo dall’altra parte della strada, sotto la pensilina, e il suo viso mi ha colpito come uno schiaffo. Seduta eretta, giocherellava senza posa con un orsetto nero di peluche, guardando chissà dove, in un’attesa senza aspettativa. Quando l’autobus è arrivato, le altre persone sono salite a bordo, lei è rimasta seduta, anche se per quella strada non transitano altre linee. Ho continuato a fissarla, immobile, finché lei ha cominciato a girare lentamente la testa nella mia direzione. In quel momento un clacson ha protestato, impaziente, e sono dovuto ripartire in fretta.
Da quel momento, le sue mani nervose e i suoi occhi che non aspettano non mi hanno più lasciato.
Ho parlato con la gente, ho fatto lezione, ho giocato coi miei figli, ho fatto l’amore con mia moglie, ho vissuto come prima, eppure lei si era insinuata nella mia mente. Dovevo rivederla, conoscere il suo nome, sentire il suo odore. Però sapevo perfettamente che sarebbe stato impossibile. Ogni mattina, in coda allo stesso semaforo rosso, gettavo lo sguardo con finta casualità verso la fermata dell’autobus, invano.


Sono passati due mesi. Batteva un sole insolente, mentre accompagnavo una mia classe a una conferenza sulle specie in via d’estinzione. Lei era sotto un albero, ancora dall’altro lato della strada, eravamo separati da un mare di auto che scaricavano rabbiose. Ma questa volta mi stava guardando, gli occhi fissi nei miei, e mi ha anche fatto un cenno. No, stava scacciando un insetto: ha battuto le mani in aria, una volta, per ucciderlo. Ci è mancato poco che abbandonassi i miei alunni, mi sono trattenuto a fatica, col cuore che bussava per uscire.
“Be’, prof, è già stanco della vita?”
“Le donne sono pericolose. E si ricordi che ha moglie e figli”.
Dopo che tutti erano tornati a casa, e me ne tornavo da solo a riprendere l’auto, ho ripercorso la stessa via, perché volevo ritrovarla. Ho attraversato la strada, mi sono piazzato sotto il tiglio da cui mi aveva fatto quel cenno, e ho inspirato profondamente per cogliere qualche residuo della sua presenza nell’aria fetida.


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